Ciao Maestro,
è un po’ difficile iniziare … inizio … fine … limen o linea di confine … mi chiedo se non siano la stessa cosa, mi hai fatto una domanda e proverò a dare una risposta.
Quando l’inizio? Era un giorno d’autunno quando ti venni a trovare, dopo aver letto di una locandina che annunciava di un gruppo sul drammautogeno tenuto da te al Teatro degli Archi. Ricordo la tua voce al telefono, sentii una dolcezza immensa e immaginavo che avrei incontrato un uomo di novant’anni con gli occhiali, pelato e con una giacca blu, magro e alto. Una voce calda e pastosa ed estremamente accogliente.
Avevo 25 anni e mi apprestavo a terminare l’università, la Facoltà di Psicologia, ero stata per una ricerca per tesi di laurea in città del Guatemala, avevo dentro di me gli occhi dei ragazzi e dei bambini di strada, nel cuore la pedagogia della liberazione, il sapore della terra dei Maya in cui tanto mi ero scoperta e ritrovata. Lì, in quella terra ero chiamata “La Chapin” “L’Indigena”. Mi ha aperto la porta dello studio una donna con gli occhi sfuggenti intenta a dare del lei al Dottore, tanto sembrava la fretta di sistemare plichi e scartoffie burocratiche, in corsa come il bianconiglio. Caterina, questo il suo nome, una donna che nel corso degli anni avrei scoperto fortemente materna nei miei confronti e desiderosa di togliersi le scarpe per poter danzare liberamente insieme a me in una delle nostre maratone.
Tanti libri e maschere dalle strane forme nella sala d’attesa. Ricordo il mio stupore nel vedere di fronte a me un uomo dalla barba ed i capelli lunghi in splendide ciabatte di cuoio, un uomo giovane che mi sembrava senza tempo con una maglia a manica corta gialla. Ricordo di averti stretto la mano mentre mi facevi accomodare sul tuo divano coperto di un telo indiano verde, mi sorridevi in silenzio e dopo averti raccontato come fossi arrivata a te e quali fossero state le mie esperienze come psicologa di strada in viaggio per la Bosnia e il Guatemala, hai respirato profondamente chiedendomi quale esperienza artistica mi appartenesse e avessi dimenticato di raccontare. Sentii una forte emozione nel petto ed il mio cuore sussultare, risposi timidamente “sono una cantante … dietro le quinte … ho smesso di cantare da anni oramai … troppo forte … troppo coinvolgimento … non riesco a dominare le emozioni e il mio corpo non le regge … la mia testa inizia a dolére fortemente e il mio respiro si blocca, una forte angoscia mi pervade e non riesco più a vedere …”. Sarei diventata la tua prima tirocinante di psicologia al Teatro degli Archi, e poi paziente e allieva, una tua docente, una figlia umanista, meditatrice, bioenergeta, coleader. È iniziato tutto quel giorno, in quella stanza, nello spazio del Kairos, il tempo dell’opportunità.
Quel giorno fu il mio primo giorno da paziente e me ne accorsi a distanza di anni.
La stanza della psicoterapia è uno spazio socratico e sacro in cui le distanze si annullano e si costruiscono ogni volta. Accoglienza e riconoscimento, corpo ed emozioni, medit-azione.
Divago? Qual’era la domanda? Sto rispondendo?
Scrivevo ogni cosa accadesse nei nostri gruppi di incontro con la mia mano mancina, scrivevo del drammautogeno, del Sé che avevo l’opportunità di vedere in azione autorigenerarsi con la scusa del vuoto o del troppo pieno, tra luci ed ombre, tra la confusione del palcoscenico e la morte statica e dinamica, nel passaggio alla fluidità della vita intrisa di spiritualità che riempie ad istanti il corpo della gioia di vivere come i battiti del cuore. Da osservatrice a partecipante in quel magnifico teatro iniziai a cantare ad occhi chiusi, cantai di te e di me, di immagini oniriche, del gruppo, dei miei avi, del passato e del futuro. Cantai a braccia aperte con i piedi ben poggiati per terra e mi incontrai nuovamente tra le lacrime e il mio corpo iniziò a vibrare. La mia commozione fu anche la tua.
Qual’è lo scopo della Psicoterapia se non accogliersi nel proprio Esserci ed Essere e arrendersi al corpo come dice il nostro Lowen? Ciò che tu hai chiamato drammautogeno, l’arte della Psicoterapia, l’arrendersi all’autenticità, al dolore, alla morte, al ritmo esistenziale della vita, trovare la giusta distanza nel disimparare incontrando se stessi.
Ripresi a cantare e a far cantare, iniziai a ricercare sulla e con la “Voce”, a dar vita al Cantautogeno come arte umanistica esistenziale, arte socratica per dar voce al proprio Sé psicofisico, in un accordarsi di suoni, parole, voci ed emozioni che trascendessero la depressione del corpo nella fluidità della vita e nella vibrazione, il richiamo di Eco.
Il mio primo giorno di scuola fu a Pistoia, la nostra scuola è nata lì. Un gruppo di colleghi sconosciuti si diedero appuntamento per partire insieme da Roma a Pistoia. Iniziò il viaggio, il nostro condividere gioie, crisi, emozioni, apprendimento, messa in discussione, sogni, bisogni, desideri, creatività, autenticità. Luca Napoli, il direttore della sede di Pistoia, fu il primo ad aprirci la porta della scuola, ricordo la sua carezza sul mio viso, il suo sguardo caldo e accogliente. Fu un nuovo inizio per me e allo stesso tempo il mio contatto con gli addii e le mie feritoie. La mia classe rappresentava la nascita della scuola, una grande responsabilità essere i primi, a pensarci bene sono anche la prima figlia nella mia famiglia, la tua prima tirocinante, la tua allieva. Ogni week end di formazione oltre ad essere didattico era altamente esperienziale, come una maratona densa di cuore, corpo, emozione.
La struttura didattica è stata costruita nel tempo grazie soprattutto, me lo permetto di dire, alla direzione didattica di Rossella Sonnino. Ricordo i miei sogni, ho conservato tutti i miei appunti di quegli anni insieme ai taccuini delle nostre maratone. Ogni maratona era per me una grande occasione di entrare nel vuoto, nella morte di ciò che a fatica lasciavo andare e poi l’espansione nella vita. Con coraggio vivevo quel tempo del Kairos con tutta me stessa, con tutto il mio cuore come dicono i tuoi comandamenti. Detto così sembra che ti possa dipingere come un santone ma ti assicuro che non è così. Tu navighi il tempo del presente e lo dipingi di luce accogliendo l’ombra, non dai delle risposte ma fai delle domande, tu non siedi dietro una scrivania ma prendi il tuo paziente, il tuo gruppo per mano per poi lasciarlo nel lasciarlo crescere fidandoti delle sue possibilità di navigare la noia esistenziale fino al coraggio di dire di i NO! che atarassicano e intossicano il presente, scegliendo la vita.
Con il tempo la nostra scuola ha preso vita anche a Roma e al termine del mio diploma di specializzazione a Taranto. Ho avuto la grande occasione di diventare tutor e poi docente della nostra scuola.
Sono trascorsi quindici anni dalla nascita della nostra scuola, cerco di trasmettere ai nostri allievi una didattica umanistica e socratica, bioenergetica, drammautogenica e meditativa sposando l’autenticità. Ho il privilegio di essere alla tua destra nella conduzione delle maratone, ogni volta per me è stare dentro e fuori, me lo continuo a vivere con tutto il corpo e le emozioni … ma torniamo alla tua domanda, “cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto Psicoumanitas, la nostra scuola? …”
Psicoumanitas … non potevo risponderti a questo senza disquisire sul nostro primo incontro … la stanza della terapia è lo scrigno in cui il paziente affida il suo tesoro, la stanza in cui il Kronos o tempo quantitativo incontra il Kairos o tempo qualitativo e opportuno. Sento che Psicoumanitas mi ha trasmesso questo, il tempo opportuno del e con il cambiamento, mi ha permesso formazione, mi ha concesso di mettermi in discussione e di ri-vedermi ogni volta e accogliere i miei pazienti con dedizione, attenzione, amore, professionalità. Mi ha permesso di tradirmi, di tradire e di non continuare a tradire me stessa, di creare, di dire addio, di riuscire ad incontrarmi nel vuoto e nella solitudine e di incontrarla velata nello sguardo dei mie pazienti. Mi ha permesso di navigare i gruppi di incontro, in particolare attraverso l’utilizzo del cantautogeno, con creatività, struttura, studio, ricerca. Mi ha permesso di accettare me stessa, di arrendermi e chiedere ciò di cui ho bisogno infiltrando la mia corazza caratteriale. Sento di essermi scelta e il mio canto si esprime liberamente, sento di aver scelto di essere Psicoterapeuta ad approccio socratico umanistico-bioenergetico e costruttivista, drammautogenica e cantautogenista, psicofisiologa e poetessa. Sento di continuare a scegliere il mestiere più bello del mondo che porto in ogni dove e in qualsiasi contesto io navighi.
Cosa mi ha tolto? Forse l’ingenuità, il velo schizoide dagli occhi, la con-fusione. Eppure apparentemente sembriamo navigare il caos, ma è solo una scusa per entrare in contatto con la folla o follia della nostra mente e dire chi siamo davvero.
Ed Io ci sono!
Maria Serena De MasiPsicologa Psicoterapeuta Umanista e Bioenergetica, Docente dell’Istituto di Psicoterapia Psicoumanitas, Specialista in Psicofisiologia del Benessere e Cantautogeno, Docente di Filosofia e Scienze Umane, Docente e coordinatrice dell’Area Musica e Benessere nella Scuola Popolare di Musica del Tiburtino in Roma.
Matura negli anni abilità e competenze sia nell’area psicologica che musicale, coniugando nell’attività professionale entrambi gli interessi. Si occupa di formazione, ricerca e intervento clinico (individuo-coppia-famiglia-gruppo) e riabilitativo in particolare in ambito scolastico e disabilità psichica e fisica, dall’infanzia all’età adulta, utilizzando come strumenti di integrazione psicofisica e benessere in particolare il Drammautogeno e il CantAutogeno (modello terapeutico umanistico fondato con la direzione del Prof. Antonio Lo Iacono, che utilizza la voce, il corpo e il canto emozionale), poetry therapy, intelligenza emotiva, bioenergetica e tecniche di meditazione attiva, ascolto empatico, tecniche di self esteem e psicocreatività. Svolge inoltre attività di docenza nel ramo psicologico e musicale, corsi di canto ad indirizzo psicofisiologico umanistico integrato. Cura la regia e la coreografia di numerosi spettacoli anche appartenenti ad aree riguardanti il disagio giovanile e la disabilità. Conduttrice di gruppi d’incontro e seminari in tutta Italia in particolare attraverso l’utilizzo del canto e della psicofisiologia della voce per il benessere corporeo ed emotivo.
A proposito Antonio ho cantato la tua poesia scritta per tuo figlio
Eredità
Non ti ho dato le ali
per attraversare il cielo
e venirmi a trovare
nel non luogo del tempo
non ti ho insegnato a scavare
nel cuore della terra
per cercare le preziose tracce
della nostra storia
non ti ho portato sulla vetta del mondo
per dominare le tue scelte terrene
e imparare a scendere
al tuo livello attuale
Ti ho lasciato solo
ma vicino al mio cuore
ti ho parlato d’altro per distrarti
ho fatto il noioso e prevedibile amico
senza dirti che conoscevo la tua paura
le tue speranze e
qualche tuo segreto pensiero
poi un giorno ti ho mostrato il mare
ti ho fatto sentire il vento
ti ho dato una tavola e una vela
e ti ho lasciato crescere
figlio mio…!